lunedì 2 giugno 2008

Titoli di coda

E alla fine eccolo, l'aereo che mi riporta in Italia.
Sono passati quasi due mesi. Che non sono quasi nulla, nel corso di una vita, ma che diventano qualcosa, una storia forse, durante un viaggio, quando il tempo scorre ad un'altra velocità, l'esperienza si fa più densa, più intensa, più profonda.
Rimetterò a posto le lancette dell'orologio che non porto più da oltre 16 anni, e proverò a rimettermi sullo stesso fuso orario dove ho vissuto finora.
Ma in fondo so che non sarà mai esattamente la stessa ora, e lo stesso fuso orario.
Forse perché quest'ultimo volo mi farà guadagnare qualche minuto. Ho sempre sognato di viaggiare nella direzione opposta al sole come Phileas Fogg: lui in 80 giorni ha fatto il giro del mondo, io mi sono accontentato di andare dall'altra parte, del mondo. Però da piccolo mi affascinava la storia di aver guadagnato un giorno viaggiando contro il sole, anche se confesso di non averne ho mai capito fino in fondo la spiegazione. Allora forse qualcosa guadagnerò anche io, stanotte. Anche solo 5 minuti, ma sono sempre 5 minuti di vantaggio: vuoi mettere, arrivare agli appuntamenti con meno ritardo, oppure esultare per il risultato di una partita 5 minuti prima degli altri, sapere 5 minuti prima di tutti chi ha vinto le prossime elezioni (be' questa è facile, veramente, lo so fin da ora…), sapere il conto del ristorante prima degli altri e proporre qualche scommessa sicura per giocarselo...
Sarà un po' come abitare nello spazio interstiziale di due fusi orari. Con il corpo sarò in quello di Roma (che poi è lo stesso di Berlino...), con tutto il resto in qualche luogo non meglio specificato sull'oceano, laddove non ci sono isole e non si sa bene che ora faccia, o come sia fatto un’orologio...
Anche perché non so bene che paese troverò, al mio ritorno, dalle notizie che leggevo sul sito di Repubblica stentavo a riconoscerlo...
Ho salutato Buenos Aires nell'unico modo che potevo, e cioè con un “a presto”. Spero che uno dei progetti pensati o avviati qui mi riportino presto indietro, ci sono ancora parti di me che so che sono qui ma che non ho cercato e quindi trovato, mentre ero a testa in giù. Ci sono tanti aspetti di questa città enorme e familiare, snob e popolare, colta e malinconica, che devo ancora conoscere e capire.
E poi, naturalmente, c'è l'altro viaggio, quello interiore, come in ogni buon viaggio che si rispetti. Era un viaggio impegnativo, questo, c'era da attraversare territori inospitali e difficili che in confronto la Puna è stata una passeggiata, c'era da tornare in luoghi caduti nell'oblio e esplorare regioni da cui mi ero sempre tenuto ben alla larga.
Non tutto è riuscito, non sempre i luoghi sono stati all'altezza delle aspettative, non tutte le scoperte sono state piacevoli. Ma, come sempre quando si esplora, l'importante è cominciare ad avere una mappa, per quanto approssimativa, qualche punto di riferimento per orientarsi, eliminare tutto quel bianco sulle cartine e cominciare a disegnare montagne, laghi, mari e, cosa più importante, strade e sentieri.
Avevo bisogno di imparare di nuovo a stare da solo, voglio dire, a stare in compagnia di me stesso senza tutto quel contorno di bisogni e sentimenti negativi che mi ha accompagnato come contorno necessario negli ultimi anni. E, ammesso che si possa usare una metafora presa dal mondo del software per gli esseri umani, avevo bisogno di incontrare (o costruire?) la versione 2.0 di me stesso.
Per entrambe queste cose ci vuole naturalmente più tempo, ma è stato un inizio, e promettente, credo.
E quindi sì, l'eroe è tornato diverso, come in ogni film o romanzo che si rispetti, o, per tornare alla vita vera, come in ogni viaggio che è veramente tale.
Ma questi sono titoli di coda, e allora non possono mancare i ringraziamenti.
Grazie a chi mi ha incoraggiato prima di partire, ricordandomi che significato aveva per me questo viaggio.
Grazie a tutti quelli che hanno scritto sul blog, i vostri commenti mi hanno spesso strappato un sorriso e mi hanno fatto sempre molto molto piacere. “Muy buena onda”, come dice la mia espressione preferita in lunfardo. Una menzione speciale a Porzione che è stato il più assiduo e divertente di tutti. Grazie anche a chi ha avuto la pazienza di leggere pur senza commentare (epperò un piccolo sforzo potevate pure farlo...). Peste e corna invece a chi non ha letto niente (vero che io sono grafomane e vado contro ogni netiquette da blog, ma insomma...).
Grazie agli alberghi a 5 stelle austro-svizzeri che hanno ospitato Simo e al suo indispensabile mini-kit da cucito, che mi ha salvato in un paio di occasioni (i bottoni hanno la fastidiosa abitudine di provare a cadere sempre nei momenti meno opportuni...).
Grazie a tutti quelli che ho pensato quando ero in situazioni o luoghi che mi facevano venire in mente qualcuno, anche se il mio sorriso ebete in queste occasioni ha suscitato spesso strani pensieri nella gente attorno a me...
Grazie a tutti i miei compagni di viaggio precedenti, viaggiare è una cosa che impari un po' alla volta, e quello che sapevo l'ho imparato sempre insieme a qualcuno.
Grazie a chi ho potuto sentire via Skype, è strano quanto sia potente una voce per sentirsi vicini e presenti.
Grazie a chi mi ha scritto, è stato bello avere piccoli scampoli di Italia (la parte migliore) e parole amiche prima di addormentarsi.
Grazie a tutti quelli che ho incontrato in Argentina e che mi hanno fatto dimenticare di essere in un altrove che è diventato presto un interessante presente, invece che solo un futuro immaginato.
Grazie a chi ha commentato il mio strano sentirmi a casa tra le vie e le abitudini di Buenos Aires con un “magari ci sei stato in una vita precedente”, che chissà magari è vero, spero proprio di esserci stato negli anni '20, mi sarebbe piaciuto molto.
Grazie a chi proverà a consolarmi una volta in Italia! E a chi si sorbirà interminabili sessioni di foto e racconti...
Per tutti, questo spazio su internet è solo temporaneamente sospeso, in attesa del mio prossimo ritorno in Argentina.
E, per chi ne avesse voglia, continuate a leggere perché ho ancora un paio di settimane di arretrati, e visto che ormai il mio diario di viaggio è diventato questo, scriverò ancora del Noroeste andino e di Buenos Aires.
Giusto per non perdere l’abitudine.

venerdì 30 maggio 2008

El bazar de los abrazos

Mi sembrava giusto salutare Buenos Aires in una milonga, promessa di un aspetto della città che ho solo sfiorato, per riservarlo come tutto da scoprire la prossima volta che questi luoghi mi ospiteranno.

Mi sembrava anche qualcosa più di una coincidenza che proprio la mia ultima sera cominciasse il Campionato di tango metropolitano, un mese di appuntamenti nelle migliori milonghe della città prima delle semifinali e della grande finale di luglio. E' qualcosa di diverso dal gran festival del tango che si tiene ad agosto, questa è una manifestazione più piccola, rivolta più che altro ai portegni, che gira le milonghe più piccole e tradizionali, più che i grandi locali eleganti.

La milonga di oggi, poi, avevo letto che era una di quelle più autentiche e anche una delle poche aperte il pomeriggio (il tango è un affare notturno, e infatti in molte altre milonghe del campionato si comincia a mezzanotte...). Naturalmente quest'ultimo fattore ha reso El Arranque una milonga molto frequentata da ballerini anziani, ma questo la rende ancora più attraente e malinconica, se è possibile che una milonga sia più malinconica di un'altra.
Appena entrato, dunque, inforco i miei occhiali da antropologo e, dopo essermi guadagnato un posto in seconda fila (arrivando un'ora prima...), osservo tutto con gran fame di capire i misteri di questi luoghi.
Bazar de los abrazos è, oltre a una splendida definizione della milonga, il titolo di un libro che erano due o tre anni che aspettavo di leggere, da quando avevo letto un articolo di Repubblica sul tango a Buenos Aires. Lo trovate qui (comincia in prima pagina e continua a pag.2), ve lo consiglio più che caldamente, tra l'altro contiene un passaggio bellissimo, questo:
Ora che sono a loro volta “intrappolati” in antiche note, i giovani rammentano quel che dicevano i vecchi quando anche in Argentina il rock sembrava la risposta ad ogni domanda: “Il tango ti aspetta, non ha fretta. Puoi incontrarlo e non riconoscerlo, tanto prima o poi gli cadi tra le braccia".
Dopo due mesi di attenta perlustrazione delle librerie di mezza Argentina (devo dire che esplorare le librerie argentine è comunque un grande piacere) alla fine ho trovato il libro tre giorni fa. E' scritto da una psicologa (ma guarda un po'!?) che quindi guarda alla milonga e ai suoi abitanti con uno sguardo attento e complice. La milonga la definisce “sala de guardia permanente para los enfermos de tango, de vida, de encuentro, de suenos”.
E' difficile carpirne i segreti, leggere i codici misteriosi nascosti in gesti e sguardi appena accennati, capire banalmente come fanno qualche decine di coppie vicinissime tra loro a danzare questa danza a occhi chiusi senza mai scontrarsi tra loro, quasi che ci fosse un magnetismo che li avverte dello spazio disponibile attorno, sembra un gioco a incastri dove si libera uno spazio e immediatamente viene occupato, e tutti girano in tondo, ma non a caso in senso antiorario, come se si andasse contro il tempo, e in effetti un po' è così, il tempo non solo è sospeso ma scorre indietro, per la durata dei tre o quattro tanghi che una coppia balla insieme, prima di sciogliere l'abbraccio e forse non rivedersi mai più.
Animal de dos cabezas, un sol cuerpo y cuatro patas. Ser mitologico mitad hombre y mitad mujer. Monstruo de piel morena con piel clara, piernas vestidas y desnudas, brazos fuertes y brazos fragiles.
E' incredibile osservare come tutto cambia non appena parte la musica, dopo la canzone di “alleggerimento” che non si balla, che non è un tango e serve solo a far sciogliere le coppie, per poi ricomporle sempre diverse. Guardi due volti che fino ad un secondo prima magari si stanno scambiando una battuta, stanno ridendo, e poi, un attimo dopo, un abbraccio lento e intenso come se fosse l'ultimo, e il volto di lei diventa quello dell'abbandono, a occhi chiusi, mentre lui, sguardo fisso a terra, un po' obliquo, o occhi chiusi anche lui, si fa venire quella che non posso che definire come la “ruga del tanguero”, aggrotta la fronte e la sua espressione diventa grave e triste, malinconica e un po' disperata. Come se scattasse qualcosa, un meccanismo interno, misterioso, che ti permette di ballare solo se entri in quello stato d'animo, che è quello dei testi dei tanghi dopotutto.
Bisogna stare attenti, con il tango, andarci piano perché è una droga fortissima, se ti prende non ti lascia più, sei perduto per sempre. Bisogna prenderlo a piccole dosi e essere coscienti, quando si comincia a ballarlo, che non si sarà in grado di controllarlo, indipendentemente dalla propria forza di volontà.
Per la cronaca, la mia coppia preferita (che, lo ammetto, era preferita anche perché la ragazza era di una bellezza straordinaria - ma poi chissà, magari era solo il vestito, o l'eleganza e la sensualità dei suoi movimenti), non è passata, né con il voto della giuria né con il voto del pubblico.
Erano un po' delusi, ma sono giovani e ballano molto bene, avranno tempo di rifarsi...

mercoledì 28 maggio 2008

Sulle tracce del Tren a las nubes

Allora, un bel flashback indietro di tre settimane ed eccoci di nuovo a Salta. Ci arrivo un sabato pomeriggio e nelle vie del centro c'è il delirio, sono piene di gente che va in giro a fare compere...
Trovo un'agenzia aperta e prenoto un'escursione per il giorno dopo, che è domenica e non vorrei ritrovarmi a piedi.
Chiedo se c'è un posto per comprare un paio di scarpe e il tipo dell'agenzia sorride divertito, e mi dà tre o quattro indirizzi. Capisco perché della risata a stento trattenuta subito dopo: ci sono due o tre strade che sono letteralmente un unico negozio di scarpe, decine e decine unodietrolaltro, senza soluzione di continuità. Un incubo, per me che mi annoio dopo 5 minuti quando devo comprare qualcosa di abbigliamento, e poi tutta quell'offerta ti stordisce.
Non volevo comprare un altro paio di scarpe da trekking, e visto che non ho più scarpe da ginnastica provo a trovare un compromesso onorevole. Anzi ne approfitto per ringraziare le due amiche svizzere che a suo tempo mi avevano consigliato la marca giusta: si è rivelato un consiglio più che azzeccato, mi sono trovato benissimo nonostante fossero nuove e non rodate e nonostante tutte le mie difficoltà con le scarpe...
Insomma, ero pronto per nuove incredibili avventure.
L'attesa per Salta era molto alta, era l'unica destinazione oltre alla capitale che non volevo mancare. Buona parte del fascino, oltre alle fotografie che mi ha fatto vedere Roberto L., era dovuto alla voglia di salire sul mitico “tren a las nubes”.
E' un treno che percorre quasi 220 chilometri passando da 1200 metri a 4200 (che lo rende il terzo treno più alto del mondo), ma senza essere un treno a cremagliera, con strani zigzag, attraversando 29 ponti, 21 tunnel e 13 viadotti. Il paesaggio è quello incredibile della Quebrada del Toro, fino a salire e salire ed entrare in piena Puna.
L'attrazione verso questo viaggio era fortissima, un po' potete capirla guardando le foto del sito. Anche perché da due o tre anni il treno non è in funzione, e informandomi prima di partire dall'Italia sembrava che dovesse essere di nuovo inaugurato proprio ad aprile... Fortunatissima coincidenza, ho pensato io.
Invece no, perché i lavori per ripristinare il percorso sono in ritardo e sembra che non riaprirà prima dell'estate (la nostra).
Allora, per consolarmi della cocente delusione, ho preso una escursione di due giorni che in parte ripercorre lo stesso tragitto del famoso treno.
Si parte all'alba da Salta e si comincia lentamente a salire. Presto si entra nella Quebrada del Toro, che all'inizio è caratterizzata da una ricca vegetazione, da sperdute case degli indios, che terrazzano il terreno dove non sarebbe neppure pensabile farlo, e dai binari del treno che seguono normalmente l'altro costone della montagna. Un paio di volte ci fanno scendere per attraversare i ponti di ferro sulla Quebrada, dicendo, scherzando, che il pullmino non ce la fa con tutti sopra... In realtà le fermate iniziali servono più che altro per abituare i polmoni alla salita. Ci fermiamo anche nei pressi di un ponte del tren a las nubes, che ci lasciano percorrere, se vogliamo, a piedi. Fa piuttosto impressione perché non ha nessuna protezione laterale, e sotto le traversine vedi un bel salto nella Quebrada...
In realtà è ancora presto, il sole non è ancora entrato nella Quebrada e noi siamo ancora assonnati. Ci offrono caffé e alfahores e ripartiamo.
La guida è Martin, la migliore che ho trovato nelle settimane saltegne, e nel gruppo dell'escursione si crea subito un sottogruppo di “jovines” di quattro persone, io, la coppia di olandesi con cui poi ho continuato affittando la macchina e una ragazza di Buenos Aires, Ana Maria. Ana Maria e Arien lavorano entrami all'aeroporto (naturalmente Ana Maria a Buenos Aires e Arien ad Amesterdam) però Arien è anche un fotografo (ha una signora macchina con ben tre obiettivoni), e lavora per riviste di skateboard fotografando gli skaters.
Manon invece fa un lavoro bellissimo: lavora per una organizzazione governativa olandese che, raccogliendo fondi dalla lotteria e da privati, si occupa di aiutare progetti (soprattutto tipo microcredito ma non solo) nei paesi in via di sviluppo. Molto spesso, diciamo 3-4 volte l'anno, la mandano in missione più che altro per stabilire dei contatti personali con le comunità locali, e così lei gira il mondo quasi sempre in posti incredibili, e per di più lo fa anche per una nobile causa (mi ha spiegato nei dettagli alcuni dei progetti finanziati e sembra davvero che funzionino).
Comunque, saliamo e la vegetazione comincia a farsi più rada, cominciano ad apparire i cardones, si diradano anche i piccolissimi insediamenti degli indios (tranne le scuole che sputano sempre fuori nei luoghi più assurdi), le montagne, private dal verde delle piante, scoprono il loro manto multicolore. Saliamo e saliamo, ammirando di tanto in tanto le acrobazie dei binari del treno (non usare la cremagliera lo costringe a evoluzioni notevoli per superare i dislivelli più difficili).
Martin ci consiglia di dare fondo alle nostre scorte di foglie di coca, e ci spiega tutte le loro virtù. Arriviamo infine a Santa Rosa de Tastil, il “paese” più grande prima del passo. Ci fermiamo per sgranchirci le gambe, c'è poco più di una chiesetta, una scuola, qualche negozio per turista e pochissime case. C'è anche un minuscolo museo che racconta le usanze degli indios che prima abitavano numerosi l'insediamento. Un poco più in alto una piccola deviazione su una strada incredibilmente pericolosa ci porta alle rovine di Tastil, uno degli insediamenti più importanti dell'era pre-incaica. Le rovine sono molto grandi, anche se faticose da esplorare perché tutte arroccate, e a queste altitudini (siamo quasi a 4000 metri) inerpicarsi è faticoso. Sembra comunque che ci fossero circa 3000 persone che abitavano questo che era un centro importante perché in posizione strategica per l'attraversamento delle Ande.
Torniamo sulla nostra strada e continuiamo a salire, fino a raggiungere il nostro agognato passo, laddove la quebrada si stringe sempre più attorno a noi. Dall'altra parte, eccola, la Puna. Il tempo di scendere un po', dopo il passo, e ci troviamo in questo incredibile altipiano.
Ci fermiamo subito, però, nel paese di San Antonio los Cobres, che è vicino al punto di arrivo del tren a las nubes (in realtà è poco più in là, è il viadotto della Polverilla, il più spettacolare, a 4200 metri).
San Antonio è lì, polveroso e al centro del mare di Puna.
Ci sono persino delle case popolari ordinatissime e nuove di zecca. Edilizia popolare in altura. Andiamo a mangiare e provo persino a bere il tè fatto con le foglie di coca, che in realtà sembra una tisana...

Non c'è tantissimo da vedere, San Antonio è più che altro una ottima base per esplorare la Puna o le Ande. Però fanno salire due bambini appena usciti da scuola che ci racconta un po' il paese e poi ci recitano poesie, deliziosi.
Ripartiamo e ci addentriamo dentro la Puna su una strada di terra rossa, non ci sono indicazioni e sarebbe facilissimo perdersi, ad andarci da soli...
Ci sono vigogne che ci attraversano le strada, contadini o pastori che improvvisamente spuntano, in mezzo al nulla, vicino a nulla, che ti chiedi che stiano facendo, lì... Le poche casette sperdute sono quasi mimetizzate, sembra di stare in un deserto (e in effetti la Puna lo è) ma abitato, con piante, animali e qualche uomo, di tanto in tanto.
Poi, da lontano, una macchia di luce bianca, sembra un riflesso ma si fa sempre più grande e abbagliante: la Salinas Grandes. Al centro della Puna, alla congiunzione tra due mitiche strade, la ruta 40 e il cosiddetto “corridoio bioceanico”, una strada che unisce i due oceani passando le Ande in uno dei pochissimi posti (l'altro credo sia a Mendoza) dove è possibile farlo tutto l'anno, anche in inverno. Tutti mi hanno detto che tra l'altro la strada che porta al Cile da qui è bellissima, dopo il Paso de Jama ci vogliono ancora quasi 300 chilometri per incontrare il primo paese cileno...
Con il furgone entriamo nella salina e ci fermiamo proprio in mezzo. Il bianco è abbagliante, il sole è fortissimo e raddoppia la sua intensità sul sale.
I locali, tra cui alcuni artigiani che vendono oggetti ai turisti, sono completamente coperti, compreso uno specie di passamontagna e occhiali da sole, che fanno tanto terroristi più che commercianti. Questo perché le condizioni di lavoro (o di vita) sulla salina sono incredibilmente dure, in pochi anni il vento che porta il sale provoca il cancro alla pelle, e ci vuole ancora meno per diventare ciechi, bastano pochi mesi.
Assurdo come una cosa così bella, un deserto di sale, possa essere così crudele. In effetti è difficile tenere gli occhi aperti, è difficilissimo scattare foto, con il sole che non ti fa vedere niente di quello che stai inquadrando...
Il sale poi forma a terra dei disegni geometrici, e la sensazione fortissima, tra le Ande sullo sfondo, la Puna tutt'attorno e tutto quel bianco a perdita d'occhio, è quella di stare all'interno di un paesaggio non terrestre, ma di qualche altro pianeta.

C'è anche una panchina, lì, in mezzo alla salina. Surreale.
Al ritorno purtroppo mi sono perso tutto il paesaggio del passo, a parte un paio di fermate, perché alla salina abbiamo caricato 4 persone di un altro furgone che si era rotto, e ovviamente a cedere i posti a sedere è toccato a me e Arian...
Peccato perché il paesaggio sembrava incredibile, con questa strada che si arrotolava a valle, dopo il passo...
Arriviamo nel paese di Purmamarca, dove noi ragazzi ci fermiamo a dormire, mentre gli altri proseguono e tornano a Salta.
Ma di Purmamarca vi parlerò un'altra volta.



 










martedì 27 maggio 2008

Cibo per tutti i gusti

Allora, in attesa di trovare un po' di tempo per raccontarvi del Noroeste (sono clamorosamente indietro), vi aggiorno sui cibi locali, che è sempre un argomento facile facile.
Una delle cose che mi ha colpito di più mentre ero nel Noroeste è stato il locro, una specie di stufato iperproteico che non a caso si mangia in questa regione montagnosa. E' un piatto dalle chiare origini contadine, perché si usano un po' tutti gli avanzi di carne: ce ne sono di diversi tipi dentro, cotta in tempi molto lenti (un paio d'ore) insieme a del mais pestato e ad altri legumi. Infine si aggiunge un soffritto fatto con il grasso delle carne, una cosa che somiglia molto alla “cotica”... Buonissimo, soprattutto il primo che ho mangiato, che mi hanno servito in una specie di zucca fatta di pane, con la mollica della parete interna che man mano si impregnava del saporitissimo sugo, e poi, una volta finito il locro, il gioco non era finito perché si cominciava a decomporre la zucca di pane che nel frattempo si era insaporita...
Altre specialità andine, la humita, una foglia di mais (che ovviamente non si mangia, ma nessuno si è premurato di dirmelo la prima volta...) che avvolge a mo' di pacchetto (ha pure una cordicella per chiudere) una pappetta di mais e altri ingredienti non meglio identificati. Divertente e saporito ma poco solido...
Poi ci sono i tamales, una variante degli humita ma dove il mais è usato per comporre una specie di pastella (poi sempre avvolta e cotta nella foglia della pianta stessa) con dentro un ripieno di carne (ovviamente) uovo e altre diavolerie.
Nella Valle Calchaquiés la specialità è invece il cabrito al horno, e il povero capretto, che qui fa per una volta le veci dell'abusata vacca, è davvero tenerissimo e molto molto saporito.
Poi, mi duole ammetterlo, nella pioggia di carne di questi due mesi, ho assaggiato (con qualche resistenza all'inizio, poi ho provato dai miei compagni di tavolo e la volta dopo ho ceduto anche io) anche la carne di lama, che nel Noroeste è piuttosto comune (il lama, al contrario della bellissima vigogna o dei guanachi, non è a rischio estinzione). Devo ammettere che è molto buona, non troppo diversa dal manzo ma più tenera.
Forse vi ho già anticipato della picada andina, un piatto di antipasto che comprende una quantità spropositata di tipi diversi di patate, servite con le bucce e tutto e davvero ottime.
Per finire (spero) la carrellata sulle carni (non vi sto a raccontare i tagli diversi di manzo che ho provato perché sono troppi e poi non ho ancora capito le differenze...), ci sono ancora tre cose. La milanesa è, sorprendentemente, una... cotoletta. Sì proprio lei. Ma sorprendentemente la napolitana è invece una milanesa avvolta in uovo fritto e prosciutto. Non mi risulta che a Napoli facciano niente del genere (magari Francesca ci sa aiutare), ma qui ho capito che ogni volta che qualcosa ha questo tipo di accompagnamento (uovo fritto tutt'attorno e ne mezzo prosciutto) la chiamano Napolitana. Infine, il lomito, che è un classico panozzo con la carne, solo che ovviamente la carne è tantissima e c'è di tutto dentro, compreso il solito uovo fritto, patate fritte, e tanta altra roba (in realtà puoi scegliere tu cosa metterci).
Sul formaggio devo purtroppo dire che gli argentini non ci sanno proprio fare, e questo nonostante il latte di prima qualità (senz'altro migliore del nostro) che si ritrovano: fanno sempre gli stessi due o tre tipi di squallidi formaggi. Mi colpiva nel Noroeste la scritta ovunque queso y quesillo, poi ho scoperto che il quesillo è in realtà un dolce, fatto, neanche a dirlo, con una forma piccola di formaggio molto bassa che viene condito con diversi tipi di marmellate. Buono, per gli amanti del genere.
Purtroppo non posso darvi molte indicazioni interessanti sui dolci, che generalmente fuori dall'Italia non riesco a mangiare perché sono troppo dolci. Però ho scoperto che Buenos Aires è la seconda città al mondo (dopo Londra) per offerta di dolci per abitante. E stasera mi hanno fatto provare una crostata alla patata (!!) che non era niente male.
Ho provato invece ottimi vini tra cui il Torrontés, un bianco che fanno solo nella Quebrada de las conchas (ve ne parlerò), peccato che qui abbiano strane abitudini in quanto a bere: non solo usano dappertutto la soda (come distruggere qualunque bevanda, soprattutto se vino), non solo fanno un uso spropositato di sprite e in generale gassose, ma la moda nazionale è il Fernet Branca, e fin qui niente di troppo strano, mischiato alla Coca Cola. Mah!
Infine, per strada, ci sono ad ogni angolo venditori di popcorn (per di più dolci) e pochoclo, una roba completamente caramellata il cui odore dolciastro invade spesso le vie delle città argentine.